4 maggio 1949: una data tragica che tutti gli appassionati di sport, in particolare del calcio, ricordano bene.
Quel giorno infatti l’aereo che trasportava il Grande Torino, al ritorno da Lisbona, si schiantò sulla collina di Superga. Morirono in 31: nessuno sopravvisse in quella tragedia che consegnò al mito una squadra già leggendaria.
Molto si è detto e scritto sull’eccezionale ciclo sportivo di una squadra gloriosa che nel secondo dopoguerra macinò record vincendo 5 scudetti consecutivi e una Coppia Italia, fornendo l’ossatura alla nazionale italiana di quel tempo.
Meno noti sono gli aspetti economici legati alla costruzione di una squadra di invincibili “che tremar il mondo faceva”, capace di inaugurare un ciclo vincente che ha lasciato il segno nella storia del calcio. Quella del calcio vintage come impresa tutto sommato artigianale, fatta solo di sforzo, sacrificio e fantasia è una bella immagine che dà un tocco di romanticismo al mito inossidabile del Grande Torino. Ma che sarebbe ben lontana dalla realtà se ci portasse a pensare che il calcio della seconda metà degli anni ’40 fosse alieno alle attuali dinamiche finanziarie del pallone.
Proprio allora la Federcalcio provava infatti – invano – a mettere un argine alle crescenti spese dei club per il calciomercato. Uno scenario abituale anche ai nostri tempi e che dimostra che per vincere nel calcio, ieri come oggi, occorre spendere e investire. Condizioni imprescindibili – anche se non necessariamente sufficienti – per arrivare al successo in campo sportivo.
Ma quanto guadagnavano i calciatori in quegli anni? E quanto investiva una società come il Torino per costruire un parco giocatori invidiabile, capace di vincere scudetti per un quinquennio? Per assemblare il Grande Torino il presidente di allora, l’imprenditore Ferruccio Novo, sostenne costi per 3,763 milioni tra il 1939 e il 1945. Ecco nel dettaglio quanto costarono i campioni di quella squadra da leggenda:
Quanto potevano guadagnare questi campioni? Per farsi un’idea, basti pensare che nel settembre 1940 i presidenti delle squadre di A e B strinsero un accordo che prevedeva di abolire i premi di rendimento annuali (tetto massimo 5 mila lire) e di fissare dei tetti agli ingaggi (massimo 200 mila con deroga a 300 mila per la serie A e 1.500 per la serie B) e agli stipendi mensili (massimo di 3 mila lire per la serie A e di 1.500 per la serie B).
Ma si trattava, come mostra la “lista della spesa” di Ferruccio Novo, di cifre ben presto superate o bypassate dalle società. Anche qui il calcio contemporaneo ha inventato ben poco.
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