Non è solo finzione televisiva: alla base della popolare serie di Netflix “Squid Game” ci sarebbero fatti realmente accaduti.
Un’inchiesta cerca di fare luce su una realtà inquietante fatta di sopraffazione e di abusi senza fine. Ecco cosa succedeva.
Dietro “Squid Game”, la serie di Netflix tra le più viste al mondo, potrebbe esserci qualcosa di più che una spietata critica della società contemporanea. Come sappiamo, nella serie scritta e diretta dal regista sudcoreano Hwang Dong-hyuk si mette in scena un mortale gioco di sopravvivenza che vede coinvolte 456 persone. I partecipanti sono persone povere o indebitate, che per mettere le mani su un ricco montepremi accettano di farsi rinchiudere in una specie di Lager ai margini del mondo dove prendono parte a un gioco a eliminazione, in mezzo a torture e sadismi di ogni genere. Ben presto i giocatori-prigionieri, sorvegliati da inquietanti guardie mascherate, si accorgono che i perdenti vengono brutalmente uccisi.
Una critica alla competizione sfrenata del capitalismo? Senz’altro. Ma questa serie sudcoreana che mescola Sade, Hunger Games e Jena Plissken a quanto pare non è tutta farina del sacco del regista. Sì, perché la storia che ha tenuto incollati centinaia di migliaia di spettatori in tutto il mondo (ben 132 milioni soltanto nei primi 25 giorni di messa in onda) si ispira a un fatto realmente accaduto. Che ha poco o nulla da invidiare, quanto a efferatezza e ferocia, alla finzione televisiva. E per di più, cosa ancor più inquietante, si tratta di qualcosa accaduto praticamente l’altro ieri.
Squid Game, la storia vera che ha ispirato la serie di Netflix
Il protagonista principale di questa triste storia si chiama Park In-keun. È scomparso nel 2016 e la sua famiglia vive in Australia, a Sidney. Ma in Corea del Sud i sopravvissuti agli abusi hanno chiesto di farsi risarcire con tutte le sue proprietà.
Tutto accadde nello scenario – questa volta reale, realissimo – della città di Busan, dove era situata la struttura dittatoriale di Brothers Home.
Allora la Corea del Sud stava scaldando i motori del boom economico degli anni Novanta, quello che l’avrebbe vista tra le economie emergenti del pianeta insieme alle altre tre «Tigri asiatiche» (Taiwan, Singapore, Hong Kong). Proprio allora il Paese, dietro lo scintillio della fortissima espansione economia, accoglieva tutta una serie di strutture brutali e spietate che si nascondevano dietro il nome altisonante di “organizzazioni di assistenza”. Una di queste era appunto la Brothers Home gestita da Park In-keun.
È qui che comincia la terribile analogia con “Squid Game”. La Brothers Home era un’organizzazione in stile dittatoriale dove i detenuti erano suddivisi in plotoni e forzati a competere con gli altri e ad abusare di loro per sopravvivere. A tutti gli effetti si trattava di un campo di concentramento che ospitava al proprio interno tantissime fabbriche. E gli occupanti erano persone rastrellate per strada.
Un’opera di “purificazione sociale”
In quel momento, dopo la divisione della penisola in Nord e Sud, con le ferite della Guerra di Corea degli anni ’50 ancora aperte, il Paese cominciava però a conoscere un benessere economico mai visto prima. In quel contesto gli imminenti Giochi Asiatici (1986) e le Olimpiadi di Seul (1988) furono visti dai sudcoreani come una formidabile chance per rifarsi il look agli occhi del mondo. Oggi si direbbe un’operazione di “rebranding” o di “sportwashing” (tipo Mondiali del Qatar). Insomma, il tentativo di rifarsi una reputazione.
All’interno di questa operazione di propaganda, nell’aprile del 1981 il primo ministro dell’epoca si vide recapitare una lettera scritta a mano. La mano era quella del Presidente Chun Doo-Hwan, che da un anno aveva preso il potere grazie a un golpe militare. Il capo dello Stato con quella lettera ordinava di “reprimere il vagabondaggio”.
Dopo quella ordinanza cominciarono a sorgere questi lugubri “centri di assistenza sociale” nelle grandi città, in realtà fabbriche di “purificazione sociale”. Come il centro di Busan. In città cominciarono a vedersi in circolazione autobus che recavano insegne con lo slogan “veicolo per il trasporto dei vagabondi”. Ma naturalmente, come detto, il vero scopo di queste strutture private – ben foraggiate con fondi governativi a seconda del numero di “assistiti” reclusi al loro interno – era ben altro: quello di fare “pulizia sociale” per le strade sudcoreane.
Chi erano gli “ospiti” dei centri di assistenza sociale
Anche la polizia si vedeva ricompensare per questa attività di purificazione sociale e all’interno dei centri cominciarono ad affluire pure bambini, persone disabili e anche comuni cittadini che si erano rifiutati di mostrare il proprio documento d’identità.
A capo del più grandi questi “centri di assistenza sociale” si trovava proprio Park In-keun, ovviamente bene attento a ribadire in pubblico che strutture come queste servivano a nutrire, vestire e educare i vagabondi. Peccato che, stando a un’indagine del procuratore locale di Busan, pochissimi degli “ospiti” (meno del 10%) fossero realmente dei senzatetto.
Oltretutto la permanenza nei centri avrebbe dovuto durare soltanto un anno – il tempo della formazione – per poi reinserire la persona “assistita” nella società. La realtà, anche in questo caso, fu ben diversa. Alcuni se ne uscirono soltanto nel 1987, quando una trentina di detenuti riusciti a evadere cominciarono a denunciare cosa accadeva veramente all’interno di quei centri che dovevano riabilitarli alla vita sociale.
Brothers Home, il centro degli orrori
Come anticipato, Brothers Home era il maggiore di questi centri, poco lontano da un’area residenziale della città portuale di Busan. A pieno regime la struttura ospitava circa 4000 persone, trattati come veri prigionieri. Ma nel 1981 un filmato di propaganda del governo sudcoreano magnificava la Brothers Home presentandola come un centro di assistenza sociale modello per i vagabondi. Ma dietro le altre mura di cemento regnavano invece la crudeltà e la sopraffazione più criminali.
Lo riconobbe apertamente nel 2018 il Consiglio comunale nel porgere le proprie scuse ai sopravvissuti agli abusi della Brothers Home, raccontando la scomoda verità di persone rapite dalle strade e recluse a forza nella struttura. Anche gli ex “prigionieri” hanno raccontato della fame patita e dello sfruttamento vergognoso a cui sono stati sottoposti dai loro carcerieri-assistenti.
Schiavizzati anche i bambini
La Brothers Home gestiva oltre una dozzina di fabbriche dove si producevano vari oggetti. Scarpe, ombrellini da cocktail, abbigliamento, matite, attrezzature per la pesca e tante altre cose. La gran parte degli “ospiti” erano schiavizzati. Per il loro lavoro non ricevevano alcuna paga e anche i bambini erano di fatto sfruttati come schiavi. Tutte le testimonianze convengono sul fatto che Park In-keun usasse il pugno di ferro per governare la struttura, gestita con sistemi di comando in stile militare e organizzando i detenuti secondo gerarchie di potere.
La strategia di Park In-keun era quella di organizzare una sorta di lotta di tutti contro tutti all’interno del centro. Così spingeva i detenuti ad abusare gli uni degli altri, come in un infinito circolo vizioso. Esattamente come visto all’opera nella lotta all’ultimo sangue tra i concorrenti di “Squid Game”. I detenuti erano inquadrati all’interno di plotoni che ospitavano fino a 120 “assistiti” in file di letti a castello. Qui la violenza regnava sovrana. Per la minima infrazione – come far cadere per terra il cibo nel corso della cena – ci si vedeva infliggere la punizione collettiva dei “capi plotone”. Le cifre ufficiali parlano di 657 persone morte nella Brothers Home. Ma tutti sono convinti che il numero sia sottostimato e che le cifre reali siano molto più elevate.
La scoperta degli abusi nei centri
Già nel 1986 cominciarono a circolare voci che parlavano di persone detenute a forza e di uccisioni all’interno delle strutture. Dopo una soffiata arrivò la visita a sorpresa di un procuratore locale all’interno di uno dei cantieri della Brothers Home. Dalle foto scattate emersero guardie armate di grandi bastoni impegnate a sorvegliare i lavoratori. Di lì a poco arrivò la perquisizione e nella cassaforte della Brothers Home furono trovati e sequestrati contanti in valuta straniera per un valore complessivo di 5,5 milioni di dollari.
Nel gennaio 1987 Park In-keun finì agli arresti con l’accusa di appropriazione indebita e confinamento illegale. Dalla seconda accusa però sarà assolto e non sarà mai chiamato rispondere delle violazioni dei diritti umani avvenute all’interno della Brothers Home. Alla fine si vedrà condannare soltanto a 2 anni e mezzo di carcere, invece dei 15 chiesti per essersi intascato milioni di dollari in sussidi governativi.
Lo storico rapporto del 2022
Soltanto nel 2022 – a 35 anni di distanza dalla chiusura di Brothers Home – uno storico rapporto ha fatto emergere la cruda realtà. Ovvero il tentativo di insabbiare le prove che confermavano il crimine commesso dallo Stato. Dagli esami della commissione sui documenti della polizia, dei pubblici ministeri e dei tribunali è risultato che il centro somministrava degli psicofarmaci ai detenuti per controllarli.
È emersa dunque la complicità delle autorità statali sudcoreane che avrebbero provato oltretutto a minimizzare la gravità di quei fatti dopo che gli abusi cominciarono a diventare di dominio pubblico nel 1987. L’ex procuratore che aveva portato alla luce la verità dei finti centri di assistenza sociale – in realtà autentici campi di concentramento – ha raccontato come alcuni alti funzionari stopparono le sue indagini per timore di un imbarazzante incidente internazionale alla vigilia delle Olimpiadi di Seul.
Presto però la giustizia dovrebbe fare il suo corso dopo che la Commissione, a maggio 2022, ha cominciato a indagare sui fatti della Brothers Home. Si scorge dunque una speranza di riscatto per i sopravvissuti dei campi di lavoro, diversi dei quali devono ancora fare i conti con problemi economici e di salute. Le indagini risultano ancora in corso di svolgimento.