Condividere in rete contenuti (foto, video, informazioni personali, perfino le ecografie) relativi ai bambini è una pratica decisamente da sconsigliare.
Molti genitori tendono infatti a sottovalutare i rischi a cui possono esporre i propri figli mettendo in circolo sul web questo genere di dati.
Non si finirà mai di ripetere che i social network non sono ambienti propriamente adatti a postare immagini di bambini. Malgrado ciò, Facebook, Instagram e altri social pullulano di foto di bimbi. La domanda da farsi è: ma è giusto che dei genitori mettano così tanto in mostra la vita dei loro figli in rete?
Il punto è che qui siamo davanti non solo a una violazione della privacy, di cui magari i nostri figli potrebbero avere qualcosa da lamentarsi in futuro, quando saranno cresciuti. Il rischio che corrono non consiste soltanto in questo. C’è il pericolo infatti, almeno in alcuni casi, di vedere messa a rischio anche la loro sicurezza. Un rischio più che concreto, contro il quale mette in guardia Stacey Steinberg, docente di legge presso il Levin College of Law (Florida). «Non condividete su Internet nulla che non mostrereste in pubblico», avverte Steinberg.
Sui social network circolano immagini di bambini, che alimentano tutto un giro compulsivo di like e visualizzazioni. Spesso e volentieri parliamo di bimbi che ancora non sono venuti al mondo. Non di rado l’”esordio” comincia già col postare le foto delle ecografie. Poi si passa alle immagini del parto, a quelle dei neonati e via discorrendo. Tutta una vita, fin dai suoi albori, esposta allo sguardo occhiuto – e non sempre innocente, anzi – dei social. Che di queste immagini, ahinoi, si nutrono famelicamente. Fa impressione scoprire che secondo un sondaggio del 2010 negli Stati Uniti oltre 9 bambini su 10 (più del 90%) finiscono per vedersi mettere online.
È il fenomeno conosciuto col nome di sharenting, dall’unione delle due parole inglesi “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità). Che poi non è niente altro che la pratica, da parte dei genitori, di condividere compulsivamente col popolo della rete contenuti relativi ai propri pargoli. E via con la fiumana di foto, video, ecografie, storie, ecc.
Ma è giusto che i genitori vogliano raccontare tutto, ogni minimo dettaglio della vita dei propri figli piccoli su internet? Tanto più che, come si sa, ciò che finisce in internet è destinato a circolare se non per sempre, sicuramente molto a lungo. E basterebbe questo a evidenziare i rischi in agguato dietro la pratica dello sharenting.
Parlare dei figli sui social non è soltanto un innocente passatempo, come credono molti genitori. Ci sono dei rischi che si corrono. Come quelli sottolineati dalla succitata Stacey Steinberg, che insegna legge al Levin college of Law, Università della Florida, oltre a essere direttrice associata del Centro per i bambini e la famiglia. Al sito americano The Atlantic Steinber spiega a quali rischi si possa andare incontro con lo sharenting.
Partiamo da un’”innocente” abitudine come quella di annunciare sui social la nascita del figlio, accompagnandola con informazioni come nome, cognome, data di nascita. Ebbene, così facendo il bimbo si vede già esporre al rischio di un potenziale furto di identità. Ma anche rendere pubbliche informazioni sul luogo in cui si trovano i propri figli rappresenta già un possibile rischio per la loro sicurezza.
Un esempio concreto dei rischi che si possono correre lo ha fornito la stessa Steinberg nel suo studio Sharenting: children’s privacy in the age of social media, apparso nel 2017 sull’«Emory law journal». Qui la docente si dilunga su quanto accaduto a una blogger che aveva pubblicato le foto dei suoi gemelli mentre erano impegnati a imparare a usare il vasino. Solo successivamente la blogger ha scoperto che degli sconosciuti avevano avuto accesso alle immagini dei suoi figli piccoli per poi, dopo averle scaricate e modificate, condividerle su un sito di pedofili.
Un rischio che non diminuisce anche nel caso in cui le immagini venissero condivise su un gruppo privato di Facebook o su un account privato di Instagram. «Di solito in un gruppo privato c’è l’illusione che tutti quelli che ne fanno parte si conoscano», spiega Steinberg. Una illusione pericolosa, che alimenta un senso di falsa sicurezza. Questo perché presuppone un grado di fiducia e di attenzione da parte degli altri su cui non abbiamo il minimo controllo in realtà. «Quindi il genitore non solo deve fidarsi del fatto che le persone con cui sceglie di condividere le immagini non le useranno in alcun modo, ma deve anche confidare nel fatto che quelle persone siano a loro volta attente alla privacy, abbiano il controllo su chi può usare i loro profili sui social network».
C’è un’altra illusione che rischia di ingannare tanti genitori: pensare che le impostazioni sulla privacy costituiscano una rete di protezione sufficiente. Ragion per cui condividono allegramente i contenuti sui loro figli senza farsi troppi problemi, Senza rendersi conto, insiste Steinberg, che «in realtà anche questi post possono raggiungere un pubblico molto vasto». Paradossalmente i nativi digitali – ovvero i ragazzini – si rivelano molto più accorti dei loro genitori in tema di privacy. Questo anche grazie ad applicazioni come Snapchat, che consentono una comunicazione meno permanente.
Inoltre Steinberg sta insistendo con l’American Academy of Pediatricians affinché metta a punto delle linee guida per la condivisione di contenuti sul web. Alcune di queste potrebbero prevedere anche una sorta di “potere di veto” dato ai bambini sui contenuti da pubblicare in internet. Per Steinberg già a quattro anni i più piccoli possiedono un senso di sé. Dunque i genitori dovrebbero chiedere loro se gradiscano che amici e familiari vedano le loro immagini.
La docente di legge della Florida non pensa a un veto assoluto ai genitori di condividere online le foto dei loro figli, una pratica utile nel caso di parenti che vivono lontani da casa. Ma i benefici della condivisione devono essere bilanciati coi danni per i piccoli a cui si rischia di andare incontro. Rischi che non possono essere bellamente messi tra parentesi. La realtà è che queste informazioni condivise dai genitori potrebbero riemergere ancora a distanza di anni su Google. Senza contare che «non sappiamo quali saranno gli obiettivi dei nostri figli quando diventeranno adulti».
In sostanza, secondo Steinberg bisognerebbe agire secondo il principio di buon senso: «Non condividete su internet nulla che non mostrereste in pubblico».
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