Il valore di mercato della case ad alta qualificazione energetica appare destinato a surclassare quello delle abitazioni tradizionali.
Il timore – per non dire la certezza – è che queste ultime vedano crollare il loro valore nei prossimi anni, soprattutto se la direttiva europea sarà stringente.
La discussione sulla direttiva Ue sulla case green in queste settimane ha alimentato il dibattito politico.
Al centro dell’attenzione ci sono sostanzialmente due aspetti:
- il costo enorme e l’altrettanto mastodontico sforzo per riqualificare sul piano energetico il patrimonio immobiliare italiano;
- il rischio (o la certezza) di un crollo del valore degli immobili peggio classificati sul piano energetico.
Difficile fare una stima certa dei costi, non essendo ancora stato approvato il testo definitivo della direttiva, che ad ogni modo andrà recepita dagli stati nazionali. Difficile, se non impossibile, stimare anche quanti immobili saranno interessati. Ma sulla base delle certificazioni censite da Enea tra 2026 e 2021 si può arrivare grosso modo a una stima di questo genere: circa tre su quattro degli immobili residenziali rientrano nelle tre classi energetiche più basse.
L’ipotesi di riqualificarli tutti nel giro di dieci anni è assolutamente impraticabile. Non soltanto per una questione di fondi e risorse, ma anche per la carenza di imprese e materiali.
Divario tra case green e tradizionali in forte aumento
Quanto al secondo punto la differenza di prezzi tra gli immobili delle classi energetiche superiori (A e B) e quella più bassa (G) è in aumento e da qui a dieci anni appare destinata ad aumentare ancora. Secondo l’ultimo rapporto su casa e famiglie di Nomisma il 40% di chi cerca casa considera la classificazione energetica alta come la caratteristica più importante di un immobile. In parte per una maggiore sensibilità ai temi ambientali ma anche per i costi indotti dal caro energia.
Il Corriere della Sera ha calcolato la differenza media di prezzo tra gli immobili delle classi energetiche più alte e quelle inferiori alla D mettendo a confronto i prezzi medi in nove grandi città italiane. In particolare si sono confrontati i valori delle case nuove (classe A o B) o recentemente ristrutturate a nuovo (come quelle riqualificate grazie al superbonus 110%) con case usate ma recenti. Il confronto, che si basa sull’ultimo rapporto di Nomisma, ha fatto emergere un divario medio che oscilla dal 19% (nelle zone di pregio) al 25% nelle periferie.
Una differenza dovuta al fatto che nelle zone di pregio l’ubicazione della casa è prevalente su altri aspetti, a differenza della periferia.
I divario nelle grandi citta italiane
A Milano ad esempio, il divario nelle zone di pregio è il 21,8% nelle zone di pregio, che sale al 26,1% in periferia. Anche maggiore la differenza a Roma: si va dall’11,4% nei quartieri più lussuosi al 22,4% della periferia. A Napoli c’è il divario più basso in assoluto (8,7% nelle zone di pregio) mentre a Torino quello più alto (34,7% in periferia).
Il divario crescerà anche per il fatto che i costi da sostenere per i costruttori sono in forte ascesa. Nel 2022 i costi di edificazione sono aumentati di oltre il 25% rispetto al 2021, ai quali vanno aggiunti pure gli aumenti degli interessi bancari. In questa fase molti sviluppatori, non potendo scaricare tutti gli aumenti sui listini, tengono fermi i progetti. Di conseguenza c’è carenza di offerta di nuovo nelle grandi città, col rischio di indurre un aumento dei prezzi.
Le previsioni parlano di un divario tra case almeno di classe C e quelle più scadenti di classe F e G che a parità di condizioni potrebbe attestarsi attorno a una media del 25%. In particolar modo se le regole dettate della direttiva europea dovessero rivelarsi stringenti.